Nell’ambito del progetto IMPROVE, Shaper da diverse città italiane hanno collaborato per scrivere un libro pubblicato da Talent Ventures sotto il titolo Le professioni del futuro: Perché il 65% dei giovani di oggi faranno domani un lavoro che non esiste ancora. Siamo lieti di poter condividere frammenti a cui hanno contribuito gli Shaper torinesi.
Capitolo 4: Uno sguardo al settore legale
A cura di A. Barbero, S. Batello, S. Bonamin, F. Cassanelli
Una delle frasi che si sente pronunciare più frequentemente nei corridoi delle facoltà di giurisprudenza e nelle conversazioni tra gli studenti di legge sfiancati dalle lunghe sessioni d’esami estive è: “Non farò mai l’avvocato!”
Come dargli torto? Nei testi e nelle serie tv quella legale è spesso dipinta come una professione governata da riti barocchi, che si sviluppa tra polverose pile di faldoni e aule di tribunale grigiastre oppure, nella migliore delle ipotesi, in avveniristici uffici a vetrate con fotocopiatrici perennemente occupate dal praticante di turno, ultimo malcapitato tra le grinfie di un capo azzeccagarbugli dai tratti mistici e dalle pretese impossibili. Se queste sono senza dubbio immagini parodistiche, la realtà che attende quegli studenti riluttanti a intraprendere la professione una volta varcata la soglia dell’università, invece, potrebbe riservargli notevoli sorprese. Questo articolo offre una breve panoramica di una figura tanto antica quanto in rapida evoluzione, cercando di fornire una risposta a un quesito tutt’altro che semplice: quali prospettive per chi decide di studiare giurisprudenza nel 2020?
Se si sfoglia un vocabolario di lingua italiana fino a trovare la parola “avvocato”, verosimilmente ci si imbatterà in una definizione simile a questa: “professionista forense che assiste la parte nel giudizio; fornito di una laurea in legge e necessariamente iscritto nell’albo professionale” (L. 247/2012). Ignoriamo per un momento la prima parte della definizione, concentrandoci esclusivamente sulla seconda parte. Ovvero, prima di chiederci che cosa sia un avvocato, poniamoci il problema di cosa serva per diventarne uno: una laurea in giurisprudenza e l’iscrizione all’albo. Mentre non occorre soffermarsi sul primo requisito, il secondo merita un minimo di approfondimento. L’avvocato è una tipica professione ordinistica, ossia richiede l’iscrizione a un ordine professionale (l’Ordine degli Avvocati), il cui accesso è regolamentato da un esame a doppia fase (scritto e orale).
Per sostenere l’esame di ammissione all’Ordine degli Avvocati è necessario svolgere almeno 18 mesi di praticantato presso un dominus, ossia un avvocato che vanti un’anzianità professionale di almeno cinque anni e, almeno in teoria, trasmetta effettivamente il mestiere al praticante. Come accade in tutte le professioni ordinistiche, l’avvocato, una volta ammesso all’Ordine, è tenuto a rispettarne le regole e i principi, tra cui spicca il requisito dell’indipendenza professionale. Tale requisito, tradotto in termini pratici, significa che l’avvocato non può svolgere la professione in rapporto di subordinazione lavorativa verso chicchessia.
Quindi, sebbene sia assai comune che alcuni avvocati vadano a infoltire le fila di qualche società come dipendenti della stessa, tale passaggio comporta necessariamente la cancellazione dall’albo e la rinuncia all’esercizio di un’ampia sfera di prerogative tipiche del mestiere: in primis, la tutela davanti agli organi giurisdizionali. Una particolare eccezione a tale regola vale per gli uffici legali delle istituzioni pubbliche, ai cui dipendenti è invece riservata un’apposita sezione all’interno dell’albo. Chiariti tali aspetti, torniamo alla definizione di cui sopra: che cos’è un avvocato? A dispetto di quanto suggerisce il vocabolario, oggi sarebbe certamente riduttivo dire che l’avvocato è unicamente chi assiste la parte nel giudizio. La scarsa attualità di tale definizione affonda le sue radici nel modello che per lunghissimo tempo ha dominato il mercato degli studi legali italiani: lo “studio-famiglia”.
Da tempo immemore, e almeno fino a metà degli anni ’90, lo studio legale è stato sostanzialmente quel luogo in cui l’avvocato, spesso “erede” di famigliari avvocati, riceveva i propri clienti per poi prenderne le difese in un giudizio che, in base al caso, assumeva connotati civili, penali o amministrativi. Si trattava frequentemente di studi “tuttofare”, dove l’avvocato amministrava questioni che spaziavano dal divorzio alla lite societaria, dal furto alla bancarotta fraudolenta, talvolta avvalendosi di una segretaria e di qualche praticante, più raramente in collaborazione con altri avvocati. Insomma, un’immagine non troppo distante dal “dominus-azzeccagarbugli” di cui sopra.
Ma con la ventata di liberalizzazioni portate dalla nascita dell’Unione Europea, questo quadro era destinato a mutare in modo irreversibile. È l’avvento dello “studio-azienda”: un modello importato dai paesi anglosassoni che, seppur con qualche adattamento, è riuscito a farsi strada nel business legale italiano. Lo “studio-azienda”, in termini estremamente generali e sintetici, è uno studio di concezione assai lontana dallo “studio-famiglia”: si avvale di decine, in qualche caso centinaia di professionisti con specifici ruoli e livelli di anzianità; ha un core business definito; opera in una specifica area del diritto (es: diritto commerciale, diritto societario, diritto del lavoro, etc.) e talvolta è persino strutturato in dipartimenti specializzati per materia (es. diritto fallimentare, diritto marittimo, diritto dell’energia, diritto della proprietà intellettuale, etc.); è inserito in un network nazionale e/o internazionale che opera con un nome comune.
Lo “studio-azienda” sovente fonda la propria sopravvivenza sulla consulenza stragiudiziale, ossia su tutte quelle attività che esulano dall’esistenza di una lite e anzi, in qualche caso hanno come obiettivo principale tenere il cliente “lontano dai tribunali”: la negoziazione dei contratti, le operazioni straordinarie, la compliance con la normativa vigente (ossia tutte quelle attività che permettono al cliente di avere attività e processi a norma di legge) e, in generale, tutte le attività di cui il cliente possa necessitare per realizzare un proprio progetto nel rispetto della legge.
Quanto sopra avvenne pescando a piene mani dal modello britannico, dove il barrister, ossia l’avvocato che si occupa di perorare la ragioni del cliente in giudizio, è una figura distinta dal solicitor, ossia l’avvocato che si occupa delle questioni che precedono la soglia del tribunale, incluse tutte le attività consulenziali.
Ne consegue che oggi, quantomeno nelle grandi realtà strutturate, l’avvocato che si occupa di contenzioso non sia più l’unico o il principale professionista legale esistente, ma sia frequentemente un avvocato con una specializzazione complementare e differente da quella dei propri colleghi che si occupa di liti afferenti a uno specifico settore.
Chiaramente la dicotomia tra “studio-famiglia” e “studio-azienda” sopra descritta è da intendersi come una mera esemplificazione per estremi: nella pratica, il mercato legale italiano è un’enorme zona grigia costellata da migliaia di studi di media dimensione che coniugano le caratteristiche di entrambi i modelli.
Si tratta di un approccio all’incrocio tra tradizione e innovazione che, paradossalmente, potrebbe costituire la chiave per l’evoluzione futura della professione. Infatti, se da un lato il modello studio-famiglia sconta, per il proprio fatto di non essere specializzato e per le ridotte dimensioni, l’inadeguatezza a gestire determinate questioni e clienti, è pur vero che lo studio-azienda, dall’altro lato, riscontra un tasso sempre crescente di criticità legate alla propria rigidità d’assetto, che lo rende inadatto a maneggiare pratiche che, per quanto promettenti, non ne giustifichino gli elevati costi.
Ad esempio, tra le sfide che tale modello dovrà affrontare nell’immediato futuro ricade certamente la progressiva sperimentazione e l’impiego del legal-tech, ossia di strumenti che (non senza qualche perplessità) mirano ad automatizzare determinati procedimenti il cui svolgimento avrebbe tipicamente richiesto l’intervento di un grande studio.
Si pensi, per esempio, alla necessità di analizzare, ai fini di un’acquisizione societaria internazionale, migliaia di contratti, per giunta scritti in lingue diverse e/o afferenti a diverse giurisdizioni: uno scenario che usualmente avrebbe richiesto l’impiego di decine di avvocati, presto potrebbe essere gestito integralmente mediante un’intelligenza artificiale, rispetto a cui il legale avrà la mera funzione di verificatore.
O ancora, si pensi all’emergere di nuove branche del diritto, dove la consulenza dell’avvocato si affianca (e talvolta si mescola, con notevole confusione di ruoli) all’expertise di figure dal background non-legale, come accade nei settori della sicurezza sul lavoro, della cybersecurity oppure della protezione dei dati personali, che approfondiremo nei successivi paragrafi, dove ormai la competizione tra avvocati e non-avvocati è una realtà di fatto.
Così accade che tra i due modelli si inizino a sperimentare soluzioni volte a identificare una “terza via” che si sposi con la flessibilità richiesta da questi tempi senza rinunciare ai vantaggi una realtà professionale strutturata. Da un lato si assiste alla nascita di “studi boutique”, ossia studi dalla struttura definita ma di dimensioni decisamente ridotte rispetto allo studio azienda, che rinvengono il proprio punto di forza nell’estrema specializzazione in un solo settore oppure in un determinato tipo di pratica.
Dall’altro lato, si inizia ad assistere alla nascita di un nuovo tipo di avvocato: l’avvocato-startupper, ossia il professionista o lo studio di professionisti che scelga di fornire, oltre ai servizi legali, anche servizi extra legali, talvolta integrando nella propria struttura figure diverse dagli avvocati. Accade così che l’avvocato esperto di cybersecurity offra, attraverso una struttura mista, servizi IT o di programmazione. Oppure che l’avvocato che si occupa di diritto del lavoro integri nel proprio studio anche servizi di consulenza del lavoro e payroll. O ancora che un tech lawyer sviluppi applicativi da vendere ai clienti, alle istituzioni e/o ad altri studi legali, per migliorare o semplificare determinati processi.
Dove stiamo andando quindi? È chiaro che l’avvocato stia diventando sempre di più una professione che racchiude mestieri diversissimi tra loro: pur in presenza di un background comune (laurea in giurisprudenza, iscrizione all’Ordine), è innegabile che la distanza siderale tra chi si occupa di blockchain, di adozioni internazionali oppure di crimini dei colletti bianchi renda di fatto sempre meno probabile svolgere un mestiere davvero assimilabile a quello di un collega che eserciti in un settore differente dal proprio.
Si può concludere quindi che la sopravvivenza della professione di avvocato oggi è inscindibilmente legata a due fattori: un investimento in specializzazione che consenta di differenziarsi dal mare magnum dei professionisti generalisti e, non secondariamente, la capacità di approcciare la professione tentando strade nuove, per certi versi meno istituzionali rispetto al ruolo che la società tipicamente ‘ingessa’ addosso a questa categoria, vedendo in queste novità non la rinuncia al prestigio della professione, ma bensì un suo ammodernamento.
Il Data Protection Officer: proteggere i dati personali nell’era digitale
Il 25 maggio del 2018 ha iniziato a dispiegare i suoi effetti il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati, più comunemente noto come “GDPR”. Il GDPR è il Regolamento che disciplina il trattamento dei dati personali e prescrive non solo come debbano essere processati i dati delle persone fisiche ma anche come debbano essere protetti. Insomma, il GDPR è sinonimo non solo di privacy ma anche di protezione dei dati personali.
Il GDPR è un Regolamento dell’Unione Europea. Di conseguenza, è una legge che si applica non solo nel nostro Paese, ma anche in tutti i Paesi dell’UE. Il Regolamento, però, può avere efficacia anche al di fuori dei Paesi dell’Unione Europea. Infatti, deve essere rispettato da moltissime organizzazioni estere che offrono prodotti e servizi o trattano dati di persone fisiche residenti all’interno dell’Unione Europea. Per fare un esempio, qualsiasi sito di e-commerce o social network americano o cinese, all’interno del quale una persona residente all’interno dell’UE può registrarsi o compiere degli acquisti, deve essere conforme alle disposizioni del GDPR.
Ma a chi devono affidarsi imprese, associazioni ed enti pubblici per implementare le disposizioni del Regolamento? Il GDPR ha introdotto nell’ordinamento italiano la figura del Responsabile per la Protezione dei Dati Personali (RPD o DPO). Il DPO è un soggetto designato da un’organizzazione per assolvere a funzioni di supporto e controllo, consultive, formative e informative.
Con l’entrata in vigore del GDPR, per molte organizzazioni la nomina di un DPO è diventata obbligatoria. Ad esempio, sono obbligati a nominare un DPO tutti gli enti pubblici (ministeri, regioni, comuni, scuole ecc.) e le società che trattano, su larga scala, le cosiddette categorie “particolari di dati”. I dati particolari sono quei dati personali che rivelano l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, i dati genetici e i dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, i dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona. Infine, troviamo i dati relativi a condanne penali e ai reati.
Secondo il Garante per la Protezione dei Dati Personali italiano (l’Autorità di Controllo) sono tenuti alla nomina, a titolo di esempio: banche, assicurazioni, società di revisione contabile, società che forniscono servizi informatici (come le società proprietarie dei social network!), società che erogano servizi televisivi a pagamento e molte altre.
Quanto sono richiesti i DPO in Italia?
Dal momento che moltissime organizzazioni sono obbligate alla nomina di un DPO, nel tempo aumenterà la domanda di tali figure sul mercato del lavoro. A fine 2019 il Garante italiano segnalava 54.425 comunicazioni all’Autorità di dati di contatto del DPO1. Quindi possiamo dire che al 30 dicembre 2019 sono stati nominati in Italia più di 50 mila DPO.
Ma come si diventa un DPO? Secondo le linee guida dello European Data Protection Board (EDPB), il board che riunione tutti i garanti della privacy europei:
- “Il livello di conoscenza specialistica richiesto al DPO non trova una definizione tassativa; piuttosto, deve essere proporzionato alla sensibilità, complessità e quantità dei dati sottoposti a trattamento. Per esempio, se un trattamento riveste particolare complessità oppure comporta un volume consistente di dati sensibili, il DPO avrà probabilmente bisogno di un livello più elevato di conoscenze specialistiche e di supporto.”
- “Sono pertinenti al riguardo la conoscenza da parte del DPO della normativa e delle prassi nazionali ed europee in materia di protezione dei dati e un’approfondita conoscenza del GDPR. Proficua anche la promozione di una formazione adeguata e continua rivolta ai DPO da parte delle Autorità di controllo.”
- “È utile la conoscenza dello specifico settore di attività e della struttura organizzativa del titolare del trattamento; inoltre, il DPO dovrebbe avere buona familiarità con le operazioni di trattamento svolte nonché con i sistemi informativi e le esigenze di sicurezza e protezione dati manifestate dal titolare.”
- “Le qualità personali dovrebbero comprendere, per esempio, l’integrità ed elevati standard deontologici; il DPO dovrebbe perseguire in via primaria l’osservanza delle disposizioni del GDPR. Il DPO svolge un ruolo chiave nel promuovere la cultura della protezione dei dati all’interno dell’azienda o dell’organizzazione”.
Ma a cosa serve in concreto un DPO? È importante sottolineare che una delle principali esigenze per le organizzazioni, a seguito dell’entrata in vigore del GDPR, è quella di prevenire i cosiddetti “data breach” (ossia le violazioni di dati personali). Il data breach si verifica in caso di perdita di confidenzialità, integrità o disponibilità dei dati personali: molto spesso tale situazione si verifica qualora un’azienda risulti target di un attacco hacker, ad esempio quelli finalizzati a rubare i dati legati alle carte di credito degli utenti.
Sulla base delle considerazioni che abbiamo fatto, è opportuno che il DPO sia dotato non solo di un mix di competenze legali ma anche e soprattutto di skill informatiche e di cybersecurity. Molti DPO hanno una laurea in giurisprudenza, altri in ingegneria. Tuttavia, nulla esclude che un laureato in economia, dopo aver frequentato specifici corsi possa divenire un DPO.
Il DPO del futuro si troverà ad affrontare sfide complesse ma molto stimolanti. Naturalmente una di queste è relativa alla protezione dei diritti degli interessati in un mondo sempre più influenzato dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Prevenire i potenziali rischi del trattamento dei dati personali utilizzati dalle Intelligenze Artificiali per affinare le loro capacità oppure evitare che alcuni dati siano sfruttati per distorcere le capacità di valutazione delle IA sono solo alcune delle mansioni che saranno richieste a questi professionisti. Un esempio concreto? Il DPO del futuro dovrà sorvegliare il processo di “apprendimento automatico” delle intelligenze artificiali affinché eviti che queste sviluppino delle metodologie di valutazione discriminatorie. Se infatti ipotizziamo di dover andare in banca a richiedere un finanziamento per acquistare un’automobile, e che la nostra richiesta debba essere valutata da un’intelligenza artificiale, le impostazioni di come questa IA “ragiona” possono condurre a clamorose discriminazioni. Infatti, se dovessimo “addestrare” l’intelligenza artificiale a ragionare utilizzando come base i dati relativi ai redditi dei clienti della banca, allora potrebbe emergere da questi dati come le donne (cosa che purtroppo accade spesso nella realtà) abbiano, a parità di professione, un reddito più basso degli uomini. L’IA, addestrata su questi dati, finirà anch’essa per perpetrare la discriminazione approvando le richieste di finanziamento se provenienti dagli uomini, mentre tenderà a non approvare quelle provenienti dalle donne. Tuttavia, l’IA non avrebbe nessuna colpa, devono essere gli uomini a progettarne il funzionamento in maniera tale da evitare tali effetti. Emerge dunque come sia cruciale il ruolo del DPO nell’evitare questa discriminazione immotivata: potrà farlo intervenendo per evitare effetti discriminatori nella progettazione del metodo che quella IA dovrà usare per valutare i dati.
Proteggere i brand dalla contraffazione… soprattutto online!
La proprietà intellettuale costituisce un tassello fondamentale nell’economia contemporanea. La certezza che i propri loghi, invenzioni, design, opere artistiche, siano protetti e non possano essere “rubati” da terzi, ha permesso di stimolare il processo innovativo che ha trasformato il mondo negli ultimi secoli. Quando si parla di proprietà intellettuale si fa riferimento principalmente a:
- Brevetti: Il brevetto è un titolo in forza del quale si conferisce al proprietario del brevetto l’utilizzo esclusivo di una determinata invenzione, per un periodo di tempo limitato, vietando tali attività ad altri soggetti non autorizzati.
- Marchi: Il marchio è un “segno” usato per identificare i prodotti/servizi di una impresa e distinguerli da quelli della concorrenza.
- Diritto d’autore o Copyright: Il diritto d’autore attribuisce diritti di utilizzazione economica, diritti morali e diritti a compenso a favore di autori di opere creative (quali le opere letterarie, drammatiche, didattiche e religiose) nonché le composizioni musicali, teatrali, le coreografie, i film, le fotografie, i lavori di architettura e persino i software informatici.
- Disegni o modelli industriali: Per disegno o modello s’intende l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale e/o dei materiali del prodotto stesso.
Se l’evoluzione tecnologica apre nuove possibilità di relazioni commerciali e permette un aumento della velocità delle comunicazioni, ha anche permesso a persone in mala fede di utilizzare gli strumenti da essa offerti per condurre attività basate sullo sfruttamento illecito dei diritti di proprietà intellettuale altrui.
Ad esempio, Internet ha permesso a pirati informatici di distribuire contenuti musicali o video protetti da diritto d’autore verso una moltitudine di persone che precedentemente non era possibile raggiungere. Per questo motivo, le bancarelle di CD e DVD masterizzati, che erano presenti nei mercati rionali o per strada, sono state rapidamente sostituite da file Torrent e da siti di streaming illegale.
Un fenomeno simile si sta verificando negli ultimi anni nel campo della contraffazione. Con l’esplosione dell’e-commerce e con il rafforzamento delle reti di spedizione internazionali, è diventato molto semplice acquistare abbigliamento, gadget e accessori tecnologici da venditori situati dall’altra parte del mondo. Oltre agli evidenti effetti positivi, però, questo ha causato anche l’esplosione del commercio di prodotti contraffatti. In molti siti di e-commerce, infatti, è più probabile imbattersi in articoli falsi che in prodotti originali. Questo fenomeno causa, per le società che hanno investito tempo e denaro per sviluppare un marchio o un prodotto, un danno incalcolabile.
E se la contraffazione può sembrarti qualcosa di poco importante, immagina che, secondo un articolo di Forbes del 2018, le vendite di articoli contraffatti ammontano a circa 1.700 miliardi di dollari all’anno, rendendo così la contraffazione una delle attività illegali più profittevoli. Secondo le previsioni questo numero continuerà a salire nei prossimi anni, raggiungendo nel 2022 i 2.800 miliardi di dollari all’anno (causando anche una perdita di oltre 5 milioni di posti di lavoro).
In questa battaglia contro la contraffazione, chi ha registrato un marchio o un altro titolo di proprietà intellettuale si sente disarmato di fronte alla complessità e all’ampiezza del fenomeno. D’altro canto, le autorità statali incaricate di contrastare gli illeciti online spesso non hanno gli strumenti e le risorse che consentirebbero loro di analizzare tutti i contenuti pubblicati in rete e perseguire i venditori di prodotti illegali.
Per far fronte a queste nuove minacce e fornire supporto alle aziende, sono nate, nel corso degli ultimi anni, numerose società che utilizzano una forte componente tecnologica per analizzare i contenuti presenti sul web e individuare in tempi rapidi le problematiche presenti online. Questo tipo di aziende si affianca a soggetti più tradizionali come gli studi di proprietà intellettuale, i quali si occupano principalmente della registrazione di marchi, brevetti e disegni industriali e delle cause legali ad essi connesse.
Oltre alle nuove società che si occupano di anticontraffazione online, molti brand stanno iniziando a creare al proprio interno dei team dedicati alla lotta contro i falsi online. Uno di questi è ad esempio il famoso marchio Louis Vuitton, che ha costituito un team dedicato alla “Internet brand protection” che ogni anno rimuove dal web centinaia di migliaia di contenuti illeciti e di prodotti contraffatti.
Per quanto riguarda, invece, il percorso di studi da intraprendere per svolgere questo lavoro, sono sicuramente avvantaggiati i lavoratori che hanno solide basi di informatica, di marketing online e di diritto commerciale. Oltre a questo, è fondamentale possedere una buona conoscenza delle lingue straniere (anche quelle asiatiche) per poter operare efficacemente in un ambiente senza confini. Pertanto, sono consigliate le lauree tecniche, quali ingegneria informatica e informatica. Qualora si desiderasse, invece, intraprendere un percorso meno tecnico, anche economia e giurisprudenza possono rappresentare delle valide alternative.
Oltre al tradizionale percorso universitario, è consigliabile fare numerose esperienze all’estero coltivando i propri interessi in un ambiente internazionale. Questo potrà aiutare sia nell’apprendimento delle lingue straniere sia nell’acquisizione di quel “plus” di esperienza che potrà fare la differenza nel curriculum vitae.. In aggiunta alle skills già citate, chi desidera lavorare nel settore deve possedere necessariamente una grande curiosità. Questa qualità, infatti, permette di trovare nuove soluzioni e adattarsi di fronte a nuove problematiche che potrebbero sorgere in un ambiente in continua evoluzione.
Proteggere il nostro pianeta, con gli strumenti legali
Il periodo storico in cui viviamo rappresenta un momento critico della storia della Terra: cambiamento climatico, fenomeni meteo estremi, disastri naturali, pandemie, migrazioni involontarie, sono alcuni dei rischi segnalati dal World Economic Forum per la vastissima portata potenziale del loro impatto e per l’altissima possibilità di verificazione. Ed invero, solo nei mesi da settembre 2019 a marzo 2020 abbiamo sentito parlare di straordinaria acqua alta a Venezia, incendi devastanti in Australia, Amazzonia e California e siamo stati messi in ginocchio, quasi senza eccezioni geografiche nel mondo, dalla pandemia da COVID-19, il nuovo Coronavirus.
“Le terre e gli oceani del nostro pianeta sono già al limite dello sfruttamento per far fronte alle necessità di sette miliardi di persone. La popolazione umana continua a crescere. La ricerca di soluzioni sostenibili è un imperativo economico e morale se vogliamo realizzare il futuro che desideriamo”. Con queste parole, già nel 2011, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, esortava a trovare soluzioni sostenibili, lanciando un imperativo a tutti quanti noi, richiedendo una presa di consapevolezza generale, un ripensamento del nostro ruolo di cittadini comuni, studenti o manager, nonché di quello delle istituzioni e, soprattutto, delle imprese.
E d’altronde, davanti a sfide globali, se l’impegno di salvaguardare il pianeta e le sue risorse ambientali e sociali diventa una responsabilità condivisa, le imprese – in questo scenario – possono rappresentare i veri attori del cambiamento.
Dallo sviluppo della rete Global Compact delle Nazioni Unite nel 1999, all’introduzione di concetti quali la green economy (di cui si parlerà diffusamente nel prossimo capitolo), le imprese sono state riconosciute fortemente come protagoniste nella ricerca di soluzioni durevoli, non solo a livello locale ma anche globale, e termini quali sostenibilità, sviluppo sostenibile e responsabilità sociale sono entrati sempre più frequentemente nel vocabolario comune.
Ma che cosa si intende con responsabilità sociale delle imprese? Se nel 2001, la Commissione Europea l’aveva definita come l’impegno volontario da parte delle imprese ad attuare un processo di integrazione di questioni sociali, ambientali ed etiche nella loro strategia di base, essa viene ora vista come una vera e propria “responsabilità” che le imprese hanno per il loro impatto sulla società.
Le implicazioni etiche, giuridiche ed economiche di tale definizione sono numerose. Sempre di più, infatti, le decisioni assunte dai vertici aziendali vengono soppesate anche dal punto di vista dei loro impatti sull’ambiente e sulla società circostante; e sempre più spesso le imprese vengono “giudicate” per i loro concreti impegni a mitigare gli eventuali impatti negativi, crearne di positivi e assumersi la propria responsabilità nei casi più gravi. E ad emettere questa sentenza, prima ancora che le autorità giudiziarie, sono gli stakeholders dell’impresa stessa: i suoi consumatori, i suoi dipendenti, i suoi fornitori, i suoi clienti, i suoi partner, i suoi azionisti, gli investitori terzi.
Nel campo della sostenibilità, infatti, ad oggi esistono ancora pochi obblighi a livello giuridico: l’approccio intrapreso dalle istituzioni europee e italiane è ancora molto orientato alla buona volontà delle aziende. In sostanza, tante sono le norme specifiche che vincolano i comportamenti delle imprese sotto determinati aspetti (diritti dei lavoratori, salute e sicurezza sul lavoro, privacy, rapporti con il mercato, rapporti con la pubblica amministrazione), ma in ambito sostenibilità tout court gli unici obblighi riguardano la pubblicazione delle informazioni, cioè la rendicontazione di tutti quegli sforzi e quelle attività che le imprese compiono – volontariamente e non perché obbligate – con riguardo alle sfere ambientale, sociale ed economica.
La sostenibilità e la responsabilità sociale rappresentano quindi valori imprescindibili di qualsiasi organizzazione moderna, quali strumenti per la crescita interna e per la generazione di impatto verso l’esterno – cioè per rispondere ai problemi e alle sfide del mondo.
In questo scenario, è sempre più richiesto dalle aziende il supporto di professionisti – interni o esterni – che le traghetti in questo percorso verso l’adozione di pratiche e strategie di sostenibilità, destreggiandosi tra requisiti giuridici, innovazione tecnica, valutazione degli impatti, mappatura e mitigazione dei rischi, definizione degli obiettivi di medio e lungo termine, pianificazione strategica, e comunicazione.
Un progetto di sostenibilità è per sua natura multidimensionale e la necessità delle aziende è quindi quella di potersi servire di professionisti multidisciplinari, capaci di affrontare questo percorso con un prezioso bagaglio di skills diversificate, che abbiano sì competenze tecniche ma anche capacità correlate: serviranno infatti sempre più professionisti “di strategia”, che aiutino le aziende a ripensare, in talune occasioni, al proprio business, rivedendone il modello alla luce delle nuove ed intervenute necessità.
Inoltre, un’azienda deve sapersi innovare, e per innovare bisogna che si lasci contaminare dalla diversità, aprendo le proprie porte e facendo dialogare l’interno con l’esterno. In questo, la tecnologia permette sicuramente un dialogo diretto e trasparente tra azienda ed altri attori, rappresentando un grandissimo valore aggiunto. Sostenibilità diventa così sinonimo di innovazione.
Ad oggi non esiste un percorso universitario specifico e ben definito per arrivare ad occuparsi di queste tematiche. Certo, negli ultimi anni è di molto aumentata la qualità e la quantità di corsi di specializzazione rivolti a chi ha deciso di dedicarsi a questi temi. Ma, non essendo la sostenibilità ancora un concetto largamente diffuso, la maggior parte di chi attualmente se ne occupa ha iniziato ad esercitare tale funzione provenendo da background diversi (ingegneria ambientale, management, legale, risorse umane, comunicazione) e affidandosi alla formazione sul campo.
Affiancando dunque le competenze tecniche specifiche, i lavoratori del futuro in questo ambito dovranno anche provare di aver sviluppato preziose competenze correlate. Tra queste, certamente la capacità di adottare una visione multi-disciplinare nella risoluzione dei problemi, o la creatività, intesa come approccio mai scontato ed originale alla risoluzione degli stessi.
E anche in questo caso, l’esperienza sul campo è la miglior maestra di vita. Molte competenze non si possono sviluppare tramite lo studio di un libro, ma soltanto tramite l’esperienza. Per tale motivo, un ottimo approccio è di affiancare allo studio tecnico quante più esperienze possibili: dibattiti universitari, stage all’estero (anche in ambiti non propriamente “affini” al proprio), attività di volontariato, progetti extracurriculari, viaggi, conferenze. In buona sostanza, qualsiasi tipo di esperienza che ci permetta di mantenere la nostra mente sveglia, attiva, curiosa, ricettiva, fresca e pronta a cogliere i cambiamenti del mondo cui siamo chiamati a rispondere, come cittadini e come professionisti.